Abbiamo finalmente una data, il prossimo 22 ottobre, per la prima unione civile della Capitale, quella tra gli amici Daniele e Christian, a quali auguriamo davvero il meglio per il loro futuro di famiglia, sperando che questo parziale strumento giuridico possa presto essere sostituto dal matrimonio egualitario.
Questo tuttavia non basta: Roma arriva a questo appuntamento con un considerevole ritardo rispetto a comuni come Napoli, Milano, Palermo o Bologna, che hanno già celebrato le prime unioni ad Agosto. A volte, come nel caso di Margherita, una donna malata terminale a Milano unitasi pochi giorni prima di morire, anche una settimana può fare la differenza.
Le unioni civili sono solo un tassello rispetto ad una serie di interventi concreti da realizzare contro le discriminazioni, di cui i comuni e in particolare la Capitale devono farsi carico.
E’ per questo che si rende sempre più necessario un incontro tra le realtà LGBTI e la sindaca Virginia Raggi, incontro chiesto già due settimane fa da numerose sigle nazionali e romane, tra cui anche Anddos, sul quale si attende ancora risposta.
La posta in gioco non sono solo le celebrazioni, sulle quali abbiamo ora notizie positive, ma le politiche a tutela delle persone LGBTI e più in generale contro ogni discriminazione: nessun altra città come Roma può dare il buon esempio sul piano nazionale a fronte degli oltre 8000 comuni che si apprestano a rapportarsi non solo con la nuova legge, ma anche con una crescente reazione di intolleranza molto diffusa sul territorio e nei social: ultima triste prova di tutto questo lo sciacallaggio mediatico di alcuni account pseudo religiosi che hanno dato la colpa della tragedia di Amatrice alle unioni civili. Contro questi episodi di vera e propria istigazione all’odio è necessaria una profonda azione culturale che deve necessariamente partire dalle realtà comunali e della quale la città di Roma deve tornare ad essere tra i capofila.
Spesso si fa l’errore di associare la subcultura skinhead al nazifascismo e all’estrema destra, complice la stampa che spesso affibbia la parola “skinhead” a gruppi neonazisti e neofascisti.
Nulla di più sbagliato.
Lo stile skinhead, nato alla fine degli anni’60, sorse dalle periferie britannicheabitate dalla working class sia locale che immigrata dalle colonie, quindi si tratta di uno stile antirazzista, vicino anche alle idee di sinistra essendo sorto nella classe operaia.
Caratteristiche di tale stile sonoi capelli rasati, dovuti al fatto che gli ambienti di lavoro non erano pulitissimi e i capelli rasati evitavano il rischio di prendere parassiti, gli anfibi, cioè scarpe da lavoro antinfortunistichee resistenti, e i jeans stretti, molto più comodi dei jeans a zampa d’elefante di moda all’epoca.
Oltre al razzismo non c’è nemmeno traccia di omofobianel nascente movimento skinheads, tanto che, per fare un esempio, la foto più nota di skinheads dell’epoca, divenuta iconica per tale subcultura, fu scattata dal fotografo dichiaratamente omosessuale Terry Spencer, che non ebbe problemi a relazionarsi con gli skins.
Fino alla fine degli anni ’70 gli skinheads ascoltavano principalmente musica reggae, rock steady e ska; con l’arrivo della musica punk cominciarono ad ascoltare anche questo genere, iniziando anche a produrre un proprio stile di punk, dalla musica più rozza e più lenta, e con la voce più rude, detto punk-oi genere che arrivò anche in Italia nei primi anni ’80 con la band Nabat. Dall’arrivo del punk-oi in Italia nacquero numerose band skins, tra le quali ricordiamo i Los Fastidios, band dichiaratamente antirazzista e antifascista, formatasi a Verona nel 1991, che con la canzone “Johnny and the Queer Boot Boys” si schiera contro l’omofobia.
Il problema dei naziskin purtroppo sorse alla fine degli anni’80, quando il National Front (Fronte Nazionale), partito dell’estrema destra inglese, cominciò a fare propaganda tra le curve degli stadi, frequentate da molti skins, incolpando immigrati e stranieri dei problemi della Gran Bretagna.
Molti skins cedettero a tale propaganda, non solo razzista ma anche omofoba, facendo nascere il fenomeno dei naziskin. A causa delle loro azioni violente e razziste i naziskin sono finiti nei fatti di cronaca, e i giornalisti hanno associato lo stile naziskin a quello skinhead ignorando che esso non solo aveva altre origini, ma anche che la maggior parte degli skins non aderirono alle idee di estrema destra dei naziskin.
In contrapposizione ai naziskin, e per riportare lo spirito antirazzista e working class al centro della scena punk-oi, nacque negli anni ’90 negli USA il movimento SHARP SkinHeads Against Racial Prejudice, (“Skinhead contro il pregiudizio razziale”) che dagli States si espanse velocemente in Europa e nel resto del mondo. SHARP reca come simbolo l’elmo troiano, ripreso dai vinili della Trojan Records una casa discografica che produceva vinili reggae, rock steady e skai. Nota fu la presa di posizione del cantante della band punk-oi gallese The Oppressed, Roddy Moreno, che ebbe a dire: Nessuno skinhead veramente tale è razzista. Senza la cultura giamaicana gli skinhead non esisterebbero. È stata la loro cultura, mischiata a quella della working class britannica, a fare dello skinhead ciò che è.
Altro movimento che nacque in contrapposizione ai naziskin, e per riportare al centro della scena punk-oi l’antirazzismo e l’unione della working class, inserendo anche ideali anticapilisti dell’estrema sinistraquali comunismoe anarchia, fu il movimento RASH Red&Anarchist Skinheads (Skinhead Rossi & Anarchici), nato a New York nel 1993 caratterizzato dal simbolo delle tre frecce, mutuato dalle formazioni antinazistestoriche presenti in Germania che combatterono il nascente nazismo prima che questo prendesse il potere, e che rappresentano la Libertà, l’Uguaglianza e la Solidarietà.
Anche il movimento RASH si diffuse presto in Europa, e anche al di fuori di essa, e attualmente in Italia sono presenti sia il movimento SHARP che il movimento RASH.
Nella subcultura skinhead, non sporcata da razzismo e politica di estrema destra, non ci sono discriminazioni verso persone omosessuali, bisessuali e transessuali.
E’ un peccato chemolte persone LGBTnon si avvicinino a questa subcultura a causa dei suoi apparenti legami con il nazifascismo, ipotizzati dal cattivo giornalismo.
Pregiudizi e molto altro. Di questo si è parlato ieri alla Gay Street, nell’ambito dell’iniziativa promossa dal Circolo Anddos-Gaynet Roma, “Ma davvero i gay vestono di rosa e le lesbiche sono camioniste?”, che si inseriva nell’ambito degli eventi della Gay Croisette per il prossimo Roma Pride.
Il dibattito è stato introdotto da Rosario Coco, Presidente di Anddos-Gaynet Roma, attraverso la proiezione del video del gruppo The Jackal, “Cosa pensano alcune persone quando incontrano un gay” .
Sono intervenuti successivamente Valerio Mezzolani, Segretario di Gaynet, sul tema del Pride e dei pregiudizi ad esso legati, Titty Gaudio, sui luoghi comuni e le problematiche affrontate dalle persone transgender che si candidano alle elezioni, e infine Francesco Pellas, di Link Roma3, che ha illustrato il modo in cui le realtà studentesche stanno affrontando i temi dell’omofobia e del sessismo nel mondo universitario.
Fra i punti che sono stati toccati vi è stata questione dei riconoscimenti istituzionali al Pride: solo dopo il patrocinio delle ambasciate di Canada, Stati Uniti e Francia, il Roma Pride è stato investito solo all’ultimo minuto anche del patrocinio di Roma Capitale. Queste resistenze, come è stato fatto notare, sono certamente legate ad una serie di luoghi comuni che permangono purtroppo nell’immaginario collettivo, vecchi stereotipi ma anche nuovi mantra. Ad esempio, come accaduto a Firenze, è stato negato il patrocinio al Pride in quanto “tema che divide”. Non solo, quindi, il classico argomento della “carnevalata”, ma anche un’obiezione di merito che disconosce il valore universale di una manifestazione che è fondata su principi di libertà e liberazione che riguardano tutta la cittadinanza, oltre ad essere la commemorazione dei moti di Stonewall del 1969. Da qui l’appello degli intervenuti: “l’approvazione delle unioni civili non deve dar luogo ad una “normalizzazione” delle differenze, ma deve al contrario essere l’inizio di un processo che include tutte le diversità sotto il principio dell’uguaglianza dei diritti”.
In questo processo, la lotta ai luoghi comuni più radicati nel linguaggio, in particolare quelli legati alla cultura maschilista e patriarcale, svolge certamente un ruolo di primo piano.